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giovane banchiere era stato aggredito e ucciso a coltellate sulla strada di Pradomar
per motivi incomprensibili. Non aveva nemici. Il comunicato del governo indicava
come presunti assassini certi rifugiati dell'interno del paese, che stavano scatenando
un'ondata di delinquenza comune estranea allo spirito civico della popolazione. Nelle
prime ore ci furono oltre cinquanta arresti.
Accorsi scandalizzato insieme al redattore di nera, un giornalista tipico degli
anni Venti, con visiera di celluloide verde ed elastici alle maniche, che così credeva
di arrivare per primo. Tuttavia, conosceva solo qualche particolare sparso del delitto,
e io glieli completai fin dove ritenni prudente farlo. Così scrivemmo cinque cartelle a
quattro mani per una notizia di otto colonne in prima pagina attribuita al fantasma
eterno delle fonti che ci valgono credito indiscusso. Ma all'Abominevole Uomo delle
Nove il censore non tremò il polso nell'imporre la versione ufficiale secondo cui era
stata un'imboscata di banditi liberali. Io mi lavai la coscienza con un cipiglio afflitto
ai funerali più cinici e affollati del secolo.
Quando rincasai quella sera telefonai a Rosa Cabarcas per controllare cos'era
accaduto a Delgadina, ma non rispose al telefono per quattro giorni. Al quinto andai
a casa sua a denti stretti. Le porte erano state sigillate, ma non dalla polizia, bensì
dall'Ufficio di Igiene. Nessuno nel vicinato dava notizie di nulla. Senza indizi di
Delgadina, mi dedicai a una ricerca accanita e a tratti ridicola che mi lasciò senza
fiato. Passai giornate intere osservando le giovani cicliste dalle panchine di un
giardino polveroso dove i bambini giocavano ad arrampicarsi sulla statua scrostata di
Simón Bolívar. Passavano pedalando come cerbiatte; belle, disponibili, pronte per
essere acchiappate a man salva.
Quando ebbi perso ogni speranza mi rifugiai nella pace dei boleri. Fu come un
beveraggio avvelenato: ogni parola era lei. Avevo sempre avuto bisogno del silenzio
per scrivere perché la mia mente badava più alla musica che alla scrittura. Allora fu il
contrario: riuscii a scrivere solo ascoltando boleri.
La mia vita si riempì di lei. Gli articoli che scrissi in quelle due settimane
furono modelli in codice per lettere d'amore. Il caporedattore, contrariato dalla
valanga di risposte, mi chiese di moderare l'amore finché non avessimo pensato a
come consolare così tanti lettori innamorati.
La mancanza di quiete mise fine al rigore dei miei giorni. Mi svegliavo alle
cinque, ma rimanevo nella penombra della camera immaginando Delgadina nella sua
vita irreale mentre svegliava i fratelli, li vestiva per la scuola, dava loro la colazione,
se ce n'era, e attraversava la città in bicicletta per scontare la condanna di cucire
bottoni. Mi domandai stupefatto: Cosa pensa una donna mentre attacca un bottone?
Pensava a me? Pure lei cercava Rosa Cabarcas per trovare me? Passai anche una
settimana senza togliermi la tuta da meccanico né di giorno né di notte, senza farmi
un bagno, senza radermi, senza lavarmi i denti, perché l'amore mi aveva insegnato
troppo tardi che ci si rassetta per qualcuno, ci si veste e ci si profuma per qualcuno, e
io non avevo mai avuto qualcuno per farlo. Damiana credette che fossi ammalato
quando mi trovò nudo nell'amaca alle dieci del mattino.
La vidi con gli occhi torbidi della cupidigia e la invitai a rivoltolarci insieme
nudi. Lei, con un disprezzo, mi disse: "Ci ha già pensato a quello che farà se le dico
di sì?"
Così seppi fino a che punto la sofferenza mi avesse corrotto. Non riconoscevo
me stesso nel mio dolore di adolescente. Non uscii più di casa per badare al telefono.
Scrivevo senza staccarlo, e al primo squillo ci balzavo sopra pensando che poteva
essere Rosa Cabarcas. Interrompevo di continuo quello che stavo facendo per
chiamarla, e insistetti giorni interi fino a capire che era un telefono senza cuore.
Rincasando in un pomeriggio di pioggia trovai il gatto acciambellato sulla
scalinata del portone. Era sporco e malandato, e con una docilità da far compassione.
Il manuale mi segnalò che era ammalato e seguii le sue indicazioni per farlo stare
meglio. D'improvviso, mentre schiacciavo un pisolino all'ora della siesta, mi svegliò
l'idea che potesse condurmi fino alla casa di Delgadina. Lo portai in una borsa da
mercato fino alla bottega di Rosa Cabarcas, che era sempre sigillata e senza tracce di
vita, ma si rigirò nel contenitore con tanto impeto che riuscì a scappare, saltò oltre il
muro dell'orto e scomparve fra gli alberi. Bussai al portone col pugno, e una voce
militare domandò senza aprire: Chi è là? Gente di pace, dissi io per non essere da
meno. Sto cercando la padrona. Non c'è nessuna padrona, disse la voce.
Mi apra almeno per prendere il gatto, insistetti. Non c'è nessun gatto, disse.
Domandai: Chi è lei?
"Nessuno" disse la voce.
Avevo sempre creduto che morire d'amore non fosse altro che una licenza
poetica.
Quel pomeriggio, di nuovo a casa senza il gatto e senza lei, constatai che non
solo era possibile morire, ma anche che io stesso, vecchio e senza nessuno, stavo
morendo d'amore. Però mi resi pure conto che era valida la verità contraria: non avrei
cambiato con nulla al mondo le delizie della mia sofferenza. Avevo perso oltre
quindici anni cercando di tradurre i canti di Leopardi, e solo quel pomeriggio li sentii
in profondità: Oimé, se quest'è amor, com'ei travaglia!
Il mio arrivo al giornale in tuta e mal rasato suscitò certi dubbi sulle mie
condizioni mentali. L'edificio restaurato, con uffici individuali di vetro e luci zenitali,
sembrava una clinica della maternità. Il clima artificiale silenzioso e confortevole
invitava a parlare a sussurri e camminare in punta di piedi. Nell'atrio, come viceré
morti, c'erano i ritratti a olio dei tre direttori a vita e le fotografie di visitatori illustri.
L'enorme sala principale era presieduta dalla fotografia gigantesca della redazione
attuale scattata nel pomeriggio del mio compleanno. Non riuscii a evitare il confronto
mentale con l'altra dei miei trent'anni, e ancora una volta constatai con orrore che si
invecchia di più e peggio nei ritratti che nella realtà. La segretaria che mi aveva
baciato il pomeriggio del compleanno mi domandò se ero ammalato. Fui felice di
risponderle la verità affinché non vi credesse: Ammalato d'amore. Lei disse: Peccato
che non lo sia per me!
Io le ricambiai la cortesia: Non ne sia così sicura.
Il redattore di nera uscì dal suo ufficio gridando che c'erano due cadaveri di
ragazze non identificate all'obitorio municipale. Gli domandai spaventato: Di che
età? Giovani, disse lui. Possono essere rifugiate dell'interno inseguite fin qui da sicari
del regime. Respirai sollevato. La situazione ci invade in silenzio come una macchia
di sangue, dissi. Il redattore di nera, ormai lontano, gridò: "Di sangue no, maestro, di
merda."
Qualcosa di peggio mi accadde due giorni dopo, allorché una ragazza istantanea
con una cesta uguale a quella del gatto passò come un lampo davanti alla libreria
Mundo. La inseguii sgomitando in mezzo alla folla nel fragore del mezzogiorno. Era
molto bella, con una lunga falcata e una fluidità tale nel farsi strada fra la ressa che
mi costò fatica raggiungerla. Infine la sorpassai e la guardai in faccia. Lei mi scostò
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