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ma sto correndo, m'infilo nella prima strada che mi trovo davanti, che poi finisce e
prosegue in una stradina laterale, stretta e buia, dove la pioggia rimbalza solitaria. La
vedo. È seduta sui gradini davanti a un portone dove ha appoggiato la schiena. Non
mi sente, perché il rumore della pioggia divora quello dei miei passi. Non mi vede,
perché ha la testa sprofondata nelle mani. Guardo la fuga della sua nuca curva. Non
ha più i suoi capelli di paglia, ora ce li ha corti, scuri, appiccicati alla cute come una
calza luccicante. È lì che poso la mano, su quella testa incredibilmente piccola, su
quei capelli bagnati. Lei ha uno scatto, il suo collo, la sua schiena vibrano come se
l'avesse raggiunta una frustata. Non mi aspettava. Il suo viso è una maschera macera
d'acqua, i denti battono sotto le labbra serrate. Ascolto quel battito di denti impazziti
che Italia non riesce a frenare. Sono davanti a lei, vicinissimo a lei. L'impermeabile
zuppo grava sulle mie spalle, l'acqua s'insinua nel collo tra la carne calda e i vestiti.
Ho corso, respiro con la bocca aperta mentre la pioggia scende sul mio viso. Ho un
palloncino rosso in mano. Com'è niente, stretta al suo corpo fradicio, le gambe
bianche allargate sui gradini, un paio di stivali corti sulle caviglie, lucidi d'acqua. È
atroce ritrovarla, è bellissimo. Sembra più giovane. Sembra una bambina ammalata.
Sembra una santa. L'acqua scava i suoi lineamenti. Non le restano che gli occhi. Due
pozzanghere lucenti che mi scrutano mentre il trucco nero cola sulle sue guance come
fuliggine bagnata. È sola con le sue ossa, con i suoi occhi. È lei, il mio cane perduto.
«Italia& »
E il suo nome rotola dentro quella strada buia e stretta, tra i muri che la
chiudono. Lei si porta le mani sulle orecchie, scuote la testa, non vuole sentirmi,
sentire il suo nome. Mi inginocchio sui gradini, davanti a lei, le prendo le braccia. Lei
sussulta, scalcia.
«Vai via.» dice tra i denti che continuano a tremare. «Vai via... via!»
«No, non me ne vado!»
E adesso sono io il cane, abbasso il muso addosso a lei, sul suo grembo bagnato.
C'è un odore forte in quei panni fradici. L'acqua ha risvegliato qualche vecchio odore
infilato nella trama floscia di quel giaccone di lana. È un odore di bestia sudata, di
parto. E io sono già un figlio, tremo inginocchiato sui gradini, mentre il diluvio ci
cade addosso. Circondo con le braccia i suoi fianchi magri.
«Non ho potuto dirtelo, non ce l'ho fatta.»
Lei ha spostato la schiena per allontanarsi dal mio abbraccio, respira affannata,
ma ha smesso di scacciarmi.
Mi sollevo, cerco i suoi occhi. E ora una sua mano si stacca da terra, si avvicina
al mio viso e lo carezza. E quando quella mano fredda, come la pietra dov'era posata,
si ferma sulla mia guancia, io so che la amo. La amo, figlia mia, come non ho mai
amato nessuno. La amo come un mendicante, come un lupo, come un ramo di ortica.
La amo come un taglio nel vetro. La amo perché non amo che lei, le sue ossa, il suo
odore di povera. E voglio urlare a tutta quell'acqua che non ce la farà a portarmela via
in uno di quei rigagnoli che corrono lungo il selciato deserto.
«Voglio stare con te.»
Mi guarda con quegli occhi che l'acqua sembra aver arrugginito, la sua mano
carezza le mie labbra, il pollice s'infila tra i miei denti.
«Mi ami ancora?» dice.
«Di più, Gramigna, molto di più.»
E lecco il suo pollice, lo succhio come un neonato. Succhio tutto il tempo che
siamo stati lontani. Siamo ancora noi, vecchi di un'estate prima, addossati a un
portone sotto l'acqua che scola dai terrazzi, nel profumo di un giardino umido che c'è
la dietro, noi con la carne tiepida e fumante sotto i panni bagnati, noi di nuovo in
strada come due gatti. La mia lingua è nel filo delle sue ciglia. Si è tolta le mutande e
le stringe in una mano. Le gambe aperte come una bambola, i piedi negli stivaletti
lucidi di acqua. Muovo la schiena, mi spiaccico dentro di lei, mentre l'acqua scivola
nel nostro capannello di tepore, come dentro un gazebo, una serra. I visi incatenati, è
lì sotto quel piacere di vischio, che ti sbatte lontano, e si porta via tutto. E non hai più
paura nella schiena dove qualcuno potrebbe raggiungerti, per prenderti a calci, per
svergognarti. Sei un verme di carne al riparo dentro il corpo che ami. Siamo ancora
noi, nel crepuscolo dei fiati. Noi che non resteremo, che moriremo come tutto muore.
Poi è davvero buio, e l'acqua è davvero tanta. Dove andremo? quale destino?
quale stanza ci accoglierà adesso? Non dovevamo amarci, eppure lo abbiamo fatto.
Come cani, in mezzo alla strada. E il dopo è sempre opaco, faticoso, incerto. Pochi
gesti goffi, di assestamento, una carezza, una vergogna in più. L'abbiamo fatto e non
dovevamo farlo. Ho una moglie incinta a casa che mi aspetta. Non importa, rinfilati le
mutande, Italia. E anch'io, su le brache, svelto e malamente sotto l'impermeabile che
sembra uno straccio da buttare. Nessuno ci ha visti, perché non c'è anima viva in
quella strada, tirata fuori dal mondo per noi. Italia si è alzata, guardo il suo corpo
spettrale dentro la giacca di lana pesante d'acqua. Sembra una capra smarrita, sola su
un dirupo sotto un acquazzone. È di nuovo tutto terribile. Accanto a me c'è un
lampione spento. Se un fulmine ci avesse colpiti mentre ci amavamo! Un serpente di
elettricità, conficcato tra me e lei. Un filo azzurro e vibrante, piantato dentro al
nostro piacere. Allora sì, che avrebbe avuto un senso...
Ma adesso... Adesso, passare le mani sugli abiti spiegazzati, sui capelli incollati,
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